domenica 2 settembre 2018

"Tonya", una storia di violenza made in USA


Lo so, sarò l’ultima persona che si definisce cinefila ad aver visto “Tonya”. Ma la passione è passione e non posso astenermi - dopo mesi senza parlare di cinema - dal dire la mia su un film, una biografia realistica non patinata, una bella storia psicologica piacevoli come non mi accadevano da tempo.
Questo è il racconto della parabola di Tonya Harding, pattinatrice realmente esistita ed esistente, prima ascendente e poi discendente a causa dell’aggressione ad una rivale verso la convocazione in nazionale per i Giochi Olimpici, ma è soprattutto una storia di violenza totale: psicologica, fisica, verbale, relazionale, economica. Un sogno americano a metà, dove le ambizioni e la voglia di diventare qualcuno non riescono a prevalere sulle negatività.
Premetto che mi ricordo della vicenda Harding quando avvenne nel 1994: fece molto scalpore all'epoca e venne persino citata nel film "Assassini nati" di Oliver Stone come significativa riprova della violenza (oltre che del fanatismo dei media) all'interno della società statunitense.


La protagonista nasce e cresce con una madre a dir poco anaffettiva ma soprattutto rigorosa e spietata, che intuisce la passione della figlia per il pattinaggio artistico su ghiaccio e ce la manda per togliersela di torno; dopo pochi mesi però si viene a sapere che la bimba ha persino un grande talento e inizia a distinguersi dalle rivali.


Inizia così un ricatto globale fra madre e figlia (giacchè il caro padre fa fagotto) dove violenza alimenta violenza: io madre sgobbo come cameriera per mantenerci e ti torturo per farti allenare duramente e tirare fuori il tuo dono e fartene una fonte di guadagno, tu figlia devi sottostare a tutto, allenarti duramente, tirare fuori il tuo dono e fare anche qualcosa di unico come il triplo axel, diventare famosa e magari ringraziarmi, chissenefrega se il prezzo che devi pagare è una scarsa autostima, una costante insoddisfazione, una rabbia di fondo, una tendenza alla frustrazione e alla negatività e zero concetti come soddisfazione di sé e per sé, sportività, fairplay, rispetto per gli altri, cautela, grazia, armonia, autocontrollo, diplomazia, stoicismo – anzi, qui la filosofia non è mai esistita, chissà che avrebbe detto il patriarca di “Il mio grosso grasso matrimonio greco”.

In questo violento dialogo fra sorde che caratterizza la prima parte della storia, l’unico sano consiglio che la madre LaVona poteva dare, imponendolo o ribadendolo, alla figlia Tonya, consiglio che da una parte non viene dato e dall’altra ovviamente non viene intuito minimamente, era non legarsi al suo futuro marito Jeff, un finto timido in realtà represso violento con un collega di lavoro/amico (giacchè in quella miseria morale e culturale prima che economica il collega diviene come un amico anche se è più feccia di te… schifosa società non solo americana), Shawn, ancora più vuoto, immorale e purtroppo bugiardo mitomane. Proprio Shawn è una figura da non sottovalutare in questa storia: da una parte sprona Jeff a provarci con una 15enne Tonya, poi contribuisce in maniera pesante agli eventi facendo però di testa sua, che come si intuisce è tutta marcia.

Un altro dialogo fra sordi, indirettamente violento, è fra Tonya e i giudici che visionano le sue imprese: due lingue diverse, con presupposti, mentalità, obiettivi diversi se non opposti. Lei voleva essere se stessa ed essere giudicata solo per le sue doti e i suoi saggi, loro volevano un'immagine buonista, pollitically correct, preconfezionata e piuttosto retrò di perfezione, a cominciare dal contorno familiare, dove la bravura poteva anche venire per seconda.



La narrazione degli eventi, che prende spunto dalle interviste fatte ai vari attori di questa vicenda, gioca molto sul fatto che ognuno "ha" una sua versione della verità come riflette la stessa protagonista alla fine del film, tanto che in alcuni flashback di episodi di violenza, forse per stemperarne la tensione, la Tonya del passato commenta per quella del presente, carnefice indiretta e vittima impura della situazione.


Non ci vuole molto però per capire che in realtà ognuno vuole dare (ben diverso dall’avere) una certa verità nel senso di personale versione/visione dei fatti, nessuno è stato completamente sincero, anche se non è difficile intuire quando Tonya mente agli altri come a se stessa come quando giustifica maldestramente alcune cattive esecuzioni.
Sempre a proposito della radice violenta della società statunitense, a fine film viene evidenziato il turnover di morbosità dei media a stelle e strisce, che declinano le loro attenzioni sul caso Harding per rivolgersi a quello Simpson, bello fresco di giornata.


Quale potrebbe essere il peggior difetto di Tonya? La madre, l’imprinting, l’ostinatezza nel praticare uno sport dove oltre al talento bisogna avere una certa immagine e "stare al gioco" per accontentare giudici e pubblico, la debolezza nel riavvicinarsi al marito nonostante le numerose botte? Forse un po’ tutti questi, ma il pregio almeno secondo me è nell’essere nonostante tutto una cattiva a metà e poi boh, sarà merito del regista (che ha il cognome come una marca di birra) ma nell’ultima scena dove l’ormai ex pattinatrice e novella pugilessa va al tappeto, sanguina, apre gli occhi e si rialza per continuare a lottare, mi ha dato un brivido di positività, nonostante l’aura nera della canzone di Iggy Pop mista alle vere immagini della Harding.

Bravi gli attori, ma detto fra noi ritengo che la statuetta sarebbe dovuta andare a Margot Robbie, nel 2016 meravigliosa Harley Queen e adesso straordinaria ed espressiva nei panni della Harding, piuttosto che ad Allison Janney, che interpreta una madre indubbiamente odiosa ed efficace, ma al limite del monofaccismo.

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