giovedì 7 settembre 2017

Neorealismo apparente nell'amarezza di Dodes'ka den

L'avevo detto quest'inverno, che avrei guardato e recensito "Dodes'ka den".
Io che di Akira Kurosawa conosco poco o niente e persino indirettamente, mi sono fatta incuriosire da questa sua opera della maturità dai toni meno epici rispetto a quelle precedenti, giusto per citare a denti stretti le coordinate stilistiche offertemi da Wikipedia.
  
                                           

Questo film parla infatti delle misere condizioni di alcuni giapponesi in una specie di piccola baraccopoli a ridosso di una sconosciuta città, in un periodo indefinito ma più o meno a discreta distanza temporale dalla guerra, quel tanto che basta a motivare la loro povertà o anche miseria più come un destino che come un furto o un trauma dovuti appunto al secondo grande conflitto o, peggio, al dopo bomba atomica - tema quanto mai attuale in questi giorni... brividi doppi dunque, durante la visione.

"Dodes'ka den" mi ha inizialmente riportato alla mente "Ladri di biciclette" di De Sica, soprattutto nella prima parte, per l'amarezza generale, per la scenografia, per le facce incupite dei protagonisti, ma le differenze abbondano. Intanto questo è un film corale, con varie vicende che si inframezzano, anche se alcune hanno un po' più spazio di altre. Soprattutto, per quel che ci ho capito io, non c'è il vero ingrediente De Sica cioè la cappa di pessimismo cosmico, di ineluttabilità, di condanna un po' verghiana ad essere gli ultimi: qui le varie famiglie vivono ognuna nella propria catapecchia accontentandosi di quanto hanno o riescono a procurarsi, ma senza aspirare ad altro. Solo l'uomo pazzo (con la voce del doppiatore di Michael Douglas!!) che dorme in una carcassa di auto col figlioletto parla continuamente dell'utopico progetto della loro nuova casa, con un'accuratezza di dettagli e osservazioni pari solo alla sua assurdità, cui il bambino risponde rassegnato e malinconico con continui "Si, hai ragione", ma alla resa dei fatti non muove un dito.

                                       

                                        

                                      

                                       

                                     

                                     

La colonna sonora è meno incisiva che per l'opera del grande italiano e inoltre pesano le contrapposizioni foniche: c'è chi parla più o meno a raffica e chi si barrica dietro un mutismo quasi totale. La tragedia, come anche lo stupro, è ovattata da un'aura onirica semiperenne. Non mancano parentesi comiche come le due coppie esuberanti, ma anche filosofiche come l'uomo che prima si vuol suicidare e poi cambia idea non appena lo fanno riflettere a dovere. C'è spazio anche per una piccola grande giustizia con l'allontanamento volontario di un malvagio. Il finale riprende e chiude la vicenda dell'inizio, come a suggerire una ciclicità alla fine rassicurante e digeribile, in cui si può convivere con tutto.

Il cinema orientale, giapponese come cinese o coreano, mi incuriosisce e finora non mi ha mai delusa: non posso che raccomandare questa pellicola.

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